Il momento che stiamo vivendo è estremamente difficile. Qual è il suo primo pensiero come Presidente di una azienda e quindi come imprenditore?
Credo che in momenti come questi ognuno debba cercare di fare per bene il proprio mestiere. Ciò implica soprattutto la capacità di anticipare ed interpretare le esigenze e le preoccupazioni dei propri clienti.
Preoccupazioni che in questo periodo viaggiano su due binari paralleli: la salute e l’economia.
Ma per i nostri clienti e per chi fa il nostro lavoro i due argomenti sono invece sempre indissolubilmente interrelati. Non solo a livello teorico e prospettico, ma soprattutto nella pratica operativa, in cui difendere la salute dei lavoratori significa difendere l’azienda e quindi l’economia. Oggi più che mai. E non è un modo di dire.
Ora, mentre ci prepariamo alla riapertura controllata, l’attesa deve lasciare il campo all’azione.
Discipline come la Medicina e l’Igiene del Lavoro si devono riappropriare del loro territorio e le aziende devono tornare ad essere considerate un ambito della società con caratteristiche peculiari. Anche dal punto di vista sanitario.
Soffermandoci in particolare sulla gestione della salute dei lavoratori, quali sono, a suo parere, le conseguenze dell’emergenza coronavirus?
Tutti conoscono la disciplina attraverso la quale ci si preoccupa della salute dei lavoratori. Si tratta della Medicina del Lavoro, le cui attività sono spesso rese obbligatorie da una normativa che ha recepito corrette istanze sociali per difendere il diritto alla salute, a maggior ragione, a beneficio della parte “produttiva” della popolazione. Ciò ha fatto in modo che le aziende italiane siano tutte, più o meno, dotate di un sistema obbligatorio di prevenzione e di sorveglianza sanitaria.
Purtroppo questo sistema di sorveglianza sanitaria è stato travolto dall’emergenza ed oggi pare essere in una sorta di “limbo”, in attesa di ripartire per svolgere il proprio compito, che è, o diventerà presto, importante come non è stato mai.
La “sospensione” della Medicina del Lavoro, proprio nel momento in cui sarebbe stata più utile, appare un paradosso, invece è una realtà, almeno nella gran parte delle aziende. Una realtà che può essere compresa solo pensando che l’emergenza è stata, giustamente, inquadrata anzitutto a livello di igiene pubblica e non di igiene occupazionale.
Le istituzioni hanno infatti dovuto rivolgersi prioritariamente alla cura dei malati e ai problemi delle fasce più fragili della popolazione, soprattutto in relazione alla necessità di mantenere efficiente il sistema sanitario nazionale.
La prevenzione è stata quindi necessariamente attuata in modo generale, attraverso un distanziamento sociale indifferenziato e la chiusura delle attività produttive non strategiche, senza che ci sia stato il tempo ed il modo per progettare e implementare una vera e propria “strategia di prevenzione occupazionale” che sarebbe stata preziosa per tutto il mondo del lavoro.
Ora, mentre ci prepariamo alla riapertura controllata, l’attesa deve lasciare il campo all’azione. Discipline come la Medicina e l’Igiene del Lavoro si devono riappropriare del loro territorio e le aziende devono tornare ad essere considerate un ambito della società con caratteristiche peculiari. Anche dal punto di vista sanitario.
Come d’altronde è sempre stato, soprattutto per tener conto della composizione speciale della popolazione lavorativa. Una popolazione tendenzialmente sana, senza anziani e senza bambini, addestrata ed informata, facile ad essere analizzata come coorte epidemiologica.
Ogni azienda in Italia ha a disposizione, per fortuna, un team multidisciplinare capace di intervenire a difesa dei lavoratori e del lavoro. Ora si tratta di farlo funzionare.
Come si affronta, quindi, questa nuova fase così discussa?
La nuova fase si preannuncia cruciale per la tenuta economica e sociale del Paese. Per questo dobbiamo tornare al lavoro ma soprattutto dobbiamo assumerci di nuovo le nostre responsabilità professionali. A cominciare da quella di valutare i rischi e di pianificare le misure di prevenzione e protezione dei nostri lavoratori.
Misure che non potranno più essere identiche a quelle della popolazione generale. Misure che siamo ben attrezzati per progettare ed attuare.
Ogni azienda in Italia ha a disposizione, per fortuna, un team multidisciplinare capace di intervenire a difesa dei lavoratori e del lavoro. Ora si tratta di farlo funzionare. E magari di scrivere la pagina più importante nella storia di questi “servizi di prevenzione e protezione”.
Alcune cose, comunque, sono già chiare. I principi generali sono sempre quelli ratificati nel Testo Unico. Le azioni suggerite, in larga misura, sono poi già elencate e discusse in decreti, circolari e norme di varia natura.
IL DPCM del 22 Marzo scorso prevede, ad esempio, che le Aziende che continuano la loro attività debbano dare evidenza di aver adottato le misure previste dal Protocollo condiviso tra Governo e Parti Sociali che chiede di individuare:
- i soggetti che presentano febbre e/o sintomi simil-influenzali, ai quali non va consentito accedere ai luoghi di lavoro perché potenziali diffusori del contagio;
- i soggetti particolarmente suscettibili di contrarre le forme più gravi di COVID19, da allontanare temporaneamente dal posto di lavoro per motivi precauzionali.
Raccomandazioni condivisibili, ancorché un po’ “ovvie”.
Oggi, invece, l’esigenza più evidente e rilevante è la possibilità di individuare e monitorare in modo veloce e affidabile chi è “positivo” ma soprattutto, ai nostri fini, chi è “contagioso”, distinguendo :
- i soggetti che non hanno ancora contratto l’infezione, e devono quindi continuare ad osservare scrupolosamente le misure di prevenzione e protezione;
- i soggetti che, avendo già contratto l’infezione ed avendola superata, possono considerarsi immuni e non diffondono il contagio;
- i soggetti che, ancorché asintomatici, hanno contratto l’infezione di recente e possono essere portatori del virus, e quindi di contagio, i quali vanno allontanati dall’ambiente di lavoro e poi monitorati in accordo coi Medici di Base e i Dipartimenti di Prevenzione delle ASL.
Obiettivo, purtroppo, di non facile attuazione per mancanza di strumenti diagnostici adeguati.
A questo proposito, in tale contesto quale ruolo possono ricoprire i test diagnostici e i metodi di rilevazione del virus?
Attualmente i testi di riferimento UE, come quelli nazionali, chiariscono bene che, oltre alla valutazione classica della presenza del virus attraverso tamponi orofaringei e successiva determinazione “diretta”, in laboratorio, delle proteine caratteristiche dell’RNA del virus, ci sono altri due modi più rapidi:
il test diretto sull’antigene, analogo al “tampone classico”, ma basato su metodi RT-PCR (e comunque conforme alla Direttiva 98/79/EC sui IVDs), e i test sierologici che lavorano, invece, per via indiretta individuando la risposta immunitaria dell’organismo al virus (IgG e IgM).
I tamponi standard tradizionali sono certamente il metodo più affidabile ma, come più volte ribadito dalle autorità sanitarie, il loro utilizzo esteso anche alle comunità professionali non è “fattibile” (e per certi versi neppure “consigliabile”) anche semplicemente per la disponibilità dei reagenti necessari e di laboratori adeguati.
Neppure i test rapidi sull’antigene, ancora quindi “diretti”, per intendersi quelli basati sul rilevamento del virus in secrezioni respiratorie attraverso metodi di RT PCR per amplificazione di geni virali, possono essere considerati una soluzione di breve termine per le esigenze di un rapido utilizzo “in azienda” e quindi fuori del contesto dei laboratori specializzati.
Per i test sierologici, invece, va fatto un discorso diverso. Purtroppo, come ricorda anche l’OMS, il loro uso nell’attività diagnostica dell’infezione in atto ha bisogno di ulteriori evidenze perché ne sia valutata l’affidabilità e, dunque, l’utilità operativa.
In particolare, i test rapidi basati sull’identificazione di anticorpi IgM e IgG, specifici per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, secondo il recente parere espresso dal CTS, “non possono, allo stato attuale, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di RNA virale dai tamponi nasofaringei”.
Le autorità sanitarie suggeriscono che tali test forniscono solo un risultato “qualitativo” che non è sufficientemente attendibile per una valutazione diagnostica, in quanto la rilevazione della presenza degli anticorpi mediante l’utilizzo dei test rapidi non è comunque indicativo di una infezione acuta in atto, e quindi della presenza di virus nel paziente e così di un rischio associato a una sua diffusione nella comunità.
Inoltre, per ragioni di possibile cross-reattività con altri patogeni affini come altri coronavirus umani, il rilevamento degli anticorpi potrebbe non essere specifico dell’infezione da SARS-CoV-2. Infine, l’assenza di anticorpi (non ancora presenti nel sangue per il ritardo fisiologico della risposta immunitaria rispetto all’infezione virale) non esclude la possibilità di un’infezione in atto in fase precoce o asintomatica, con il relativo rischio di contagiosità dell’individuo.
Bisogna considerare che l’uso dei test sierologici in medicina del lavoro presenta caratteristiche peculiari per le specifiche condizioni in cui opera il medico del lavoro.
Quindi, questo significa che i test sierologici non saranno utili nelle prossime strategie di prevenzione?
Tutt’altro! Dobbiamo infatti aggiungere che, se è assolutamente vero quanto affermano le nostre istituzioni, è altrettanto vero che un medico del lavoro coscienzioso utilizzerebbe questi test senza alcuna intenzione di “sostituire il test molecolare”, come dice la circolare, ma piuttosto come screening per avviare uno studio della “coorte” aziendale, capace comunque di dare numerose informazioni utili alla definizione di una efficace strategia di prevenzione.
D’altronde il test rapido sierologico è già usato da alcune regioni, da molti enti e da alcune aziende che su questo punto hanno compiuto una “fuga in avanti”, decidendo di confrontarsi da subito con i dubbi interpretativi su cui sicuramente dovremo tutti metterci alla prova.
Dubbi interpretativi su cui stanno lavorando in molti, a partire dalle nostre istituzioni centrali più prestigiose, come i laboratori dello Spallanzani, e che presto potranno fornire nuove ed utili informazioni sugli aspetti “clinici” dell’uso di questi test, quelli su cui c’è meno esperienza.
Bisogna, inoltre, anche considerare che l’uso dei test sierologici in medicina del lavoro presenta caratteristiche peculiari per le specifiche condizioni in cui opera il medico del lavoro che può sottoporre i lavoratori a controlli ripetuti a scadenze prefissate, selezionando la popolazione lavorativa secondo criteri definiti ed interpretando i risultati degli accertamenti diagnostici in base agli elementi ricavati dall’anamnesi e dalla visita medica.
Ripetere il test a scadenze più o meno ravvicinate ne accrescerà sicuramente la sensibilità. Inoltre, se la popolazione lavorativa è selezionata all’origine (possono lavorare solo i soggetti asintomatici), l’aumento della prevalenza della condizione da individuare in base al test (es. soggetto immune non contagioso) aumenta il valore predittivo del test stesso.
Aggiungiamo ancora che, se nella fase acuta dell’epidemia in molti hanno espresso dubbi sull’efficacia dei test sierologici, è altrettanto vero che nella fase di normalizzazione o ancora in quella successiva di follow up tali test saranno ritenuti, per unanime convinzione, fondamentali.
Sono convinto che i test sierologici possano essere un valido alleato nella lotta contro l’epidemia. Per questo si deve fare il possibile per introdurli rapidamente nella pratica delle strategie di prevenzione.
Quindi, qual è il suo suggerimento?
Sono convinto che i test sierologici possano essere un valido alleato nella lotta contro l’epidemia. Per questo si deve fare il possibile per introdurli rapidamente nella pratica delle strategie di prevenzione, a beneficio di tutto il sistema produttivo nazionale.
Ciò anche in considerazione della specificità della popolazione lavorativa, prevalentemente asintomatica, che può essere controllata periodicamente e che spesso è già soggetta ad un controllo termografico la cui sensibilità sarebbe notevolmente potenziata integrando i due sistemi.
Siamo anche ben consapevoli che i test sierologici devono essere utilizzati con la massima cautela e nell’ambito di seri programmi di monitoraggio, basati sulle più aggiornate conoscenze di epidemiologia, immunologia, medicina e igiene occupazionale.
E che sarà importante affrontare con attenzione la gestione di questi programmi di monitoraggio che sicuramente produrranno alcuni dubbi interpretativi. Dubbi che dobbiamo porre e risolvere il più presto possibile.
Per questo motivo pensiamo che i test rapidi sugli anticorpi non possano essere esclusi a priori dai programmi di prevenzione e protezione ai quali si sta lavorando in questi giorni, ma anche che debbano essere parte di una strategia più complessa ed integrata.
Da alcuni giorni stiamo mettendo a disposizione un servizio che prevede l’assistenza tecnica per la pianificazione strategica delle misure di prevenzione, […] la loro realizzazione in azienda con il supporto del nostro personale (medici e/o infermieri) e, infine, la supervisione e la gestione del follow up tramite la nostra direzione scientifica.
A questo proposito, quali soluzioni sta ideando Igeam per supportare al meglio le organizzazioni e i lavoratori?
Rifuggendo ogni genere di “protagonismo”, che riteniamo deleterio in questa situazione, credo sia venuto il momento che i professionisti della prevenzione diano il loro contributo.
E se in una prima fase le legittime priorità dell’Igiene pubblica hanno messo da parte l’Igiene occupazionale, nella fase che sta per cominciare sarà invece molto importante ricominciare a fare il nostro mestiere e a sfruttare le competenze, talvolta dimenticate, di Medici del Lavoro e Igienisti Occupazionali.
In questa fase abbiamo creato un piccolo “osservatorio” sui fornitori di test diagnostici (in Europa sono poche decine) e stiamo studiando e comparando tutti i kit per la diagnosi rapida disponibili sul mercato.
Ci stiamo poi confrontando con le autorità e con le organizzazioni sindacali e con quelle datoriali; stiamo costruendo un network di laboratori per coprire le esigenze delle aziende, ovunque in Italia; stiamo mettendo a punto, con il supporto di epidemiologi e immunologi, i programmi e le strategie di monitoraggio da adottare, i criteri interpretativi, le azioni da intraprendere nelle diverse situazioni con cui ci dovremo confrontare.
Inoltre già da alcuni giorni stiamo mettendo a disposizione un servizio che prevede l’assistenza tecnica per la pianificazione strategica delle misure di prevenzione, la messa a punto di procedure attuative, la consulenza per l’acquisto dei test, la loro realizzazione in azienda con il supporto, ove necessario, del nostro personale (medici e/o infermieri) e, infine, la supervisione e la gestione del follow up tramite la nostra direzione scientifica.
Per concludere, quali sono a suo parere, in questo momento, le Best Practices da utilizzare in azienda per ripartire con le attività produttive e farlo in piena sicurezza?
Considerando quanto appena discusso, mi sento di consigliare, non solo ai nostri clienti ma a tutti coloro che hanno la responsabilità della salute e della sicurezza dei lavoratori, di concentrarsi su 5 obiettivi principali che provo qui a riassumere:
- Compattare e dimensionare adeguatamente il team aziendale della prevenzione e dotarlo delle necessarie competenze multidisciplinari.
- Avviare le analisi sullo stato di salute della popolazione aziendale, soprattutto con l’individuazione dei soggetti eventualmente sintomatici, di quelli fragili e di quelli più esposti.
- Consolidare le misure di igiene, i piani di sanificazione, i programmi di protezione attraverso i dispositivi individuali e le misure di distanziamento, con il massimo del buon senso e della razionalità.
- Adottare un piano di monitoraggio e di analisi della salute dei lavoratori, integrando i test rapidi in un programma che comprenda serie valutazioni anamnestiche con la massima collaborazione con le autorità sanitarie locali.
- Mettere a punto una adeguata procedura di gestione degli accessi nei luoghi di lavoro basata anche sui test rapidi.
Per essere efficaci ed avere successo ricordiamo anche che sarà molto importante:
- selezionare i fornitori di test rapidi più seri e affidabili (considerando che in Europa ne sono stati censiti già 60);
- costruire una relazione con le autorità sanitarie locali per coordinare con loro la gestione dei “positivi” e soprattutto per avere la possibilità di una rapida verifica dei positivi con test “diretti” effettuati dai laboratori accreditati;
- costruire una relazione positiva e collaborativa con le parti sindacali o gli enti bilaterali per cementare una forte alleanza con i lavoratori.
Michele Casciani è Ingegnere chimico con Master in Ingegneria ambientale. Presidente esecutivo di Igeam, è un manager con esperienza ultraventennale nei settori dello sviluppo sostenibile e dell’innovazione tecnologica, dell’ambiente, della salute e della sicurezza sul lavoro.
È stato presidente della Associazione Italiana degli Igienisti Industriali e dell’ottava Conferenza Internazionale di IOHA (International Occupational Hygiene Association).
Ha collaborato con enti di ricerca (ENEA, ISS e altri) e ha avuto numerosi incarichi di docenza universitaria (Università di Roma, Università di Genova e Università di Urbino) su argomenti relativi alla gestione “Environment, Health&Safety”.
Igeam al fianco delle imprese
I nostri servizi di assistenza per la gestione dell’emergenza e per riprendere il lavoro in sicurezza
Test rapido Covid-19
Igeam ha attivato una richiesta di manifestazione di interesse al fine di ottimizzare l’erogazione dei test COVID-19 IgG/IgM per il monitoraggio della popolazione lavorativa.
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